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E mo te lo dico io

Ancora umani

Ancora umani

2019-09-15 23:28

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Roma, Roma, empatia, stayhuman,

Ancora umani

Un giorno qualunque su un autobus verso Termini si trasforma in cronaca dell'empatia: nonostante tutto, per fortuna, siamo ancora umani di fronte alle difficolt

L'altro giorno è successa una cosa, mentre tornavo a casa dopo l'ennesimo colloquio inutile. La proposta era, in teoria, per un posto di copy, in pratica avrei dovuto occuparmi anche di grafica, di segreteria, di fotografia, di data entry; tutto pagato quanto uno stage.


Allora, gli ho detto, visto che vi piace così tanto il multitasking, se volete mi infilo anche una scopa nel culo, così quando cambio stanza spazzo pure il pavimento e vi faccio risparmiare sulla donna delle pulizie!



Si tratta di un'azienda che produce e vende beni di lusso, si trova nel (bellissimo) quartiere ebraico qui a Roma. Non sono una che cade negli stereotipi, ma un "che rabbini di merda" l'ho pensato, lo ammetto, mentre me ne andavo passando accanto a un servizio di posate da seimila euro. 



Decido di non fermarmi nemmeno alla Feltrinelli di Largo Argentina tanto che mi sono intossicata. Volevo solo tornarmene a casa. Pensavo che mi sono scelta un lavoro senza futuro. Pensavo che se nemmeno le aziende con un fatturato di milioni di euro all'anno investono sulla professionalità e sulla competenza non c'è davvero speranza. Pensavo che Roma è una città solo per la grandezza, per il numero di locali e per i prezzi folli degli affitti, ma per il resto ha le stesse dinamiche di un paesino di provincia. E poi un caldo bestiale, l'asfalto rovente, i tacchi che mi fanno male. Ma vaffanculo a tutto. 



Insomma, salgo sul primo autobus verso Termini e chiamo mia mamma. C'è la stessa temperatura dell'inferno su quell'autobus, niente finestrini aperti, no aria condizionata. Tutti sballottati al ritmo dei sanpietrini irregolari che ricoprono le strade di Roma. Siamo tutti appiccicati, sento la pelle sudata di qualcuno contro la mia pelle sudata e ho voglia di urlare e bere l'amuchina.



A un certo punto qualcuno urla davvero.


"Fermati, fermati, si sente male, FERMATI". L'autista sente e accosta, apre le porte. Tre persone scendono dall'autobus portando in braccio un ragazzo. Non è facile né mantenerlo né appoggiarlo a terra perché sta avendo le convulsioni. Guardo la scena dal finestrino, "mamma scusa ti richiamo c'è un ragazzo che sta male". 



Riescono a stenderlo sul marciapiede, nella parte all'ombra sotto un cornicione. Il ragazzo continua a stare male. C'è stato un momento in cui su quell'autobus il tempo si è come fermato. Un secondo. Un secondo lunghissimo, in cui ci siamo guardati, senza dire niente. E poi siamo scesi quasi tutti. Chi gli teneva le gambe, chi gli ha messo uno zaino sotto la testa, arrivavano in continuazione bottiglie d'acqua che gli versavamo addosso perché l'asfalto era bollente. Almeno in 4 chiamiamo l'ambulanza. 



Si forma un gruppo di persone intorno a questo ragazzo; un ragazzo alto, atletico, bello, e nero. Siamo italiani, siamo stranieri, siamo turisti, siamo umani. Siamo tutti lì accanto a lui e gli diciamo di non mollare che adesso arriva l'ambulanza. Non lo so se ci sentiva. Non ha mai smesso di avere crisi, se non per qualche decina di secondi. A un certo punto il ragazzo che gli teneva le gambe dice "è del '98", forse rispondeva alla domanda di qualcuno.



Del '98. Il ragazzo alto, atletico, bello e nero, il ragazzo che si sta contorcendo sull'asfalto rovente da un quarto d'ora, che ha gli occhi girati all'indietro, che sbatte la testa sul cemento, ha l'età di mio fratello.  



Mi allontano, mi manca l'aria, non riesco a respirare. Mi appoggio su un gradino che puzza di piscio e con una bottiglia di birra lasciata lì chissà da quanto. Penso a mio fratello, penso a quel ragazzo, penso all'ambulanza che non arriva, penso che io ero così incazzata per un posto di lavoro, penso ce l'ha qualcuno che gli tiene la mano quando ha paura, poi mi sale un'angoscia così forte che non riesco più a pensare a niente.


Certe volte l'empatia è proprio puttana.  



Finalmente l'ambulanza arriva, il ragazzo viene messo su una barella. Con lui sale il ragazzo che gli teneva la testa (per la cronaca, bianco, italiano, sui 30anni). Quello che gli teneva le gambe, nero, rimane sul marciapiede. Ha le lacrime e inizia a stringere la mano a tutti, a dire "Grazie, grazie".


Aspettiamo lì, su quel marciapiede rovente e pieno d'acqua, che l'ambulanza riparta. Poi risaliamo sull'autobus. Mi squilla il telefono, è mia madre che vuole sapere come sta il ragazzo. Sorrido. L'autobus riparte e noi, italiani, stranieri, turisti, riprendiamo le nostre vite sballottolati sui sanpietrini direzione Termini. Ancora accaldati. Ancora stravolti. Ancora umani.


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